No, non si tratta di filosofia.

No, non si tratta di filosofia.

Non credo di aver mai creduto seriamente in Dio. Forse per moda, forse per esperienze di vita, o forse semplicemente perché sono agnostica di natura. Ricordo che, all’età di sei anni, stressai mia madre con domande sulla religione…

“Mamma, com’è possibile che Gesù sia risorto dopo tre giorni?”; “Perché la scienza insegna che discendiamo dalle scimmie, ma la religione vede in Adamo ed Eva gli iniziatori dell’umanità?”;“Come ha fatto Eva a nascere dalla costola di Adamo?” .

Ovviamente non ero così precoce. Le domande le avrò sicuramente formulate con un linguaggio molto più semplice e “bambinesco” ma, alla fine, come posso ricordarmi le parole esatte?
Ricordo che eravamo andate a trovare nonna al lavoro. Prima di andare in pensione, era cuoca all’asilo nido. Ero piccola, ma volevo sapere; merito della mera curiosità infantile, probabilmente.

Mia madre ha attraversato diversi periodi difficili che l’hanno portata ad aggrapparsi alla religione. Quando in famiglia affrontavamo questo argomento, non venivo capita. Ho creduto per molto tempo che i miei genitori credessero in Dio solo per “tradizione familiare”. Con gli anni mi sono resa conto che la loro fede (personalizzata, va detto. Sono parecchie le cose della tradizione cristiana che non condividono) è nata in famiglia, ma con gli anni ha subito variazioni caratterizzate dalla loro crescita personale.
Essendo un argomento che ho sempre ritenuto delicato, formando il mio pensiero, ho elaborato teorie personali sulla religione.

Spesso ho avvertito dispiacere per la mancanza di fede. Trovo che, tutto sommato, sia bello avere un muro portante al quale fare riferimento nei momenti di difficoltà.
Il bisogno di chiedere aiuto, la speranza che non vuole morire, la solitudine: tutti elementi che, riflettendo negli anni, mi hanno portato a credere che la fede si riduca in bisogno.

Ci si rivolge a Dio quando si è in attesa di una risposta importante, quando ci si sente inutili ed insoddisfatti, quando la salute fisica e/o psicologica viene a mancare. Insomma, ci si rivolge a Dio quando se ne avverte la necessità.

Io non penso che esista il Dio di cui parla la Chiesa. Confesso che ho un po’ il dente avvelenato con suddetta istituzione, ma non voglio dilungarmi in lamentele.
Credo che “Dio” sia un concetto di definizione personale. Alla fine, ognuno crede a modo suo, anche i cristiani praticanti. Dubito che siano molte le persone ad aggrapparsi alla teoria religiosa riguardante la nascita dell’uomo.

Io so di credere in “qualcosa”. È un “qualcosa” tutto mio, è la mia fede. Credo nel bene, nella speranza, nei brevi attimi di gioia nascosti nei piccoli gesti. Credo nel potere del cambiamento, nella forza, nell’amore. Credo nelle passioni, nel coraggio, nella giustizia (non la legge, in quella non credo di aver mai creduto). Credo nel potere di rivolgermi a “qualcuno”, un “qualcuno” tutto mio. Un qualcuno che definisco semplicemente “speranza”. Perché tutti (chi più, chi meno) quando sono tristi, affranti, preoccupati o bisognosi di affetto, si aggrappano ad essa.

“Speriamo che vada tutto bene”.

Forse, secondo la mia fede, Dio è “solo” speranza. 
Confesso, sono “parzialmente” d’accordo con Feuerbach: “Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea l'idea di Dio”.

Probabilmente molti definirebbero questo pensiero triste. A mio avviso non è così.
Non credo nel Dio onnipotente, onnipresente, onnitutto, ma credo in qualcosa. E quel qualcosa nasce naturalmente, istintivamente. È un qualcosa che ci permette di trovare il coraggio. 

È naturale, è la speranza.